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Giocattolai

Era una bottega molto piccola, sul ponte del Terzolle nello stretto di Rifredi, si entrava e era una cartoleria, ma poi si passava in una stanzetta a destra, piena di giocattoli che aveva la vetrina sulla strada, che si guardava prima di entrare e anche ogni volta che si passava di lì senza entrare. Si entrava sempre prima di natale per fare poi la lettera con l’ordinazione al Babbo. Erano giocattoli soprattutto da femmine, forse perché le bambole si vendono meglio che i soldatini.

Bambole lenci, bambole di bisquit, coccini per la cucina: piattini, tazzine, posatine, pentoline, padelline, mestolini. C’erano poi le favole in fascicoletti di cartone e librini di poche pagine tutti colorati, altri da colorare; c’erano poi le buste di plastica con i coccini di plastica o le bamboline di plastica, brutte, ma costavano cento lire. C’erano anche i mobilini per la casa della bambola, mobilini di legno, normali e ben rifiniti solo molto molto piccoli, tipo tirolese o moderni, con i pensilini e le cucinette, anche una lavatrice con la manovella e l’acqua. Erano due vecchi, poi una vecchia sola. Ora c’è un’immobiliare.

Alla fine di via delle Panche c’era poi uno che accomodava le bambole e gli orsacchiotti, ma soprattutto le bambole. Bisognava conoscerlo, suonare il campanello, salire al primo piano, aveva una stanza piccina, tipo da ciabattino, ma sul bancone c’erano occhi e parrucche, braccine e gambine, e le bambole stavano su scaffali alle sue spalle, come le scarpe dal ciabattino, ammucchiate, ma curate, infelici ma sanate, in attesa di tornare a casa con gli occhi rimessi e i capelli risistemati – erano quei capelli di lana, o di mohair, o magari di capelli veri un po’ opachi e fragili. Rifaceva i vestitini, riaccomodava teste rotte, soprattutto ripescava gli occhi a bilanciere che ditini malvagi avevano sfondato e fatto cadere nella testa vuota.

Era un vecchietto molto serio, piccolo, piegato in avanti, con gli occhiali come un orologiaio, riaccomodava anche meccanismi, vocette e grugniti nelle pance di orsi e pupazzi, ricuciva pellicce strappate, rimetteva a posto tutto e poi restituiva senza un sorriso, avvertendo che c’era voluto tempo, che bisognava tenere da conto, non sfondare e rompere. Per qualche giorno gli si dava retta, poi si tornava a giocare. Ora non c’è più nessuno.

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