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Album ’70 (1) – Volantinaggio del ’73

Volantinaggio del Settantatrè


C’era sciopero e manifestazione, concentramento a San Marco, il pacco dei volantini lo aveva preso in federazione la sera prima e adesso in autobus lo teneva legato con la cinghia dei libri; nella tasca dell’eschimo aveva messo un paio di forbici, quelle nere vecchie da cucina, perché dicevano che forse davanti a scuola sarebbero venuti quelli del Fronte e il fascista di classe sua le aveva sibilato il giorno prima “A te ti rompiamo il culo stronza”; era lui uno stronzo detto Sussi, tanto che anche l’altro fascista di classe, Biribissi, gli aveva detto che era cretino.

Il giorno prima era la festa delle matricole e davanti ai cancelli del liceo c’era il picchetto dei fasci: un gruppo di fuori, universitari con i cappelli da goliardi e le facce cattive, e sugli scalini stretti della porta aperta a metà loro due, Sussi e Biribissi; lei Tere e Adri erano entrate a spinte, con l’aiuto di Biribissi che comunque alle sue compagne di classe non voleva far la figura di fargli male. La scuola era deserta, c’erano solo pochi duri e puri (i coglioni del PCI, quelli che diceva la Laura “Se gli dici Resistenza si scaldano come un ferro da stiro”) che erano andati al massacro delle interrogazioni nonostante che fosse carnevale e una bella giornata adatta alle forche. Erano stati interrogati tutti, i profi odiavano le forche, ma non avevano intenzione di favorire quelli del movimento studentesco, neanche se per una volta facevano gli zelanti.

Stamani c’era la manifestazione e tirava vento, era girato il tempo e col tramontano arrivavano nuvole da pioggia, sotto l’eschimo si era messa la sciarpa lunga, quella che sua madre le aveva comprato ma bianca, non rossa, per non darle soddisfazione.

Alle otto davanti a scuola non c’era quasi nessuno: la Tere che fumava tutta rattrappita dal freddo appoggiata al cancello, Enrico che aspettava i volantini, solo, senza la Barbara, che come sempre sarebbe venuta all’ultimo momento con il solito modo da prima attrice, per farsi notare; stavano insieme e lei andava in giro a chiedere consiglio se doveva dargli o no la prova d’amore, tanto che diceva che si era anche riunito il collettivo per consigliarla e Enrico si era rimesso alla decisione del partito. Non gli veniva in mente a nessuno di ridere, tra compagni scopare era politica, anche Togliatti per via della Iotti aveva fatto riunire il comitato centrale.

Accanto alla Tere c’era anche Alfredo, con il cappottino blu, il ciuffo biondo e l’aria elegante, con una sciarpina nuova, a righe. Era venuto da poco al collettivo e ci portava la sua aria Finzi Contini, nessuno aveva letto il romanzo, però il film era da piangere e Alfredo era bello e lo sapeva, la Stella ci moriva dietro tanto che raccontava alle riunioni che andava da una che faceva le carte per farsi dire se ci si sarebbe messa insieme. Andare da una cartomante non era ortodosso come riunire la cellula per sapere se gli devi dare la prova d’amore, così questo la Stella lo raccontava solo alla fine delle riunioni, nella speranza che le altre lo pettegolassero a Alfredo, che invece o non lo sapeva o non gli importava e non se la filava più che con un ciao.

Lei sciolse il pacco dei volantini e ne diede la metà a Enrico e poi si misero ai lati del portone, a quelli che entravano, quasi tutti, lei diceva “Oggi c’è il corteo, vieni dai” Enrico invece tentava di spiegare anche che corteo era, era per sostenere le lotte degli operai in sciopero, i metalmeccanici in sciopero.

Enrico era iscritto alla FGCI, lei non era iscritta per via che sua madre avrebbe ricominciato la solfa sulla politica dei compagni che guarda a che gli è servito a tuo padre? Quando hanno avuto bisogno loro, lui correva a attaccare i manifesti, quando è rimasto senza lavoro che gli hanno detto, eh? Mi hanno portato un pacco con la farina e il latte e io gli ho detto che l’elemosina non la volevo e che se tornavano li rincorrevo fino alla strada, non son tornati più e io mangiavo pane e cipolla per comprarti il latte a te. Era successo, se era successo, almeno 14 anni prima, nel ’59 quando le cooperative erano fallite e babbo era rimasto un anno a spasso, o meglio non a spasso, a letto con una gamba rotta, rotta cadendo dalla motoretta mentre faceva attacchinaggi di rapina coi manifesti delle elezioni “Vota PCI”. Povero babbo.

Poi arrivarono i fasci, niente di fuori come avevano promesso, solo in gruppo quelli di scuola, sei o sette con le facce da merde e le mani in tasca. Il primo spintone l’aveva preso Enrico e i volantini erano finiti a terra, il secondo lo aveva preso lei ma da Alfredo che si era messo in mezzo e si menava nonostante il cappottino blu da Finzi Contini. Era durato pochi minuti, giusto il tempo perché dalla piazza arrivassero di corsa gli altri che aspettavano di muoversi per raggiungere il concentramento del corteo, si erano fronteggiati per un po’ in silenzio, contandosi e le mani lungo i fianchi chiuse a pugno – i fasci dice che hanno i tirapugni – lei teneva in mano le forbici nella tasca dell’eschimo, ma non era un affare da mettersi di mezzo le compagne, era un affare da ragazzi che si sfidano a chi piscia più lontano o a chi regge lo sguardo più a lungo. Era finita con due insulti, Fascisti di merda, Rossi di merda e la solita minaccia che “domani” sarebbero venuti in massa, quelli coi manganelli dalla sede del MSI. Qualcuno aveva gridato “E noi si chiama la volante rossa” – che poi era una squadra di compagni grandi, che nessuno aveva mai visto ma che tutti giuravano che c’era, basta telefonare e loro arrivano, grandi e grossi, con le spranghe per sprangare i fasci che rompono i coglioni davanti alle scuole dei ragazzini. Come Zorro.

Alfredo si era spolverato il cappotto e le era andato vicino, “Scusa per la spinta” le aveva detto con il sorriso con cui il paladino Orlando raccoglie il fazzoletto alla dama del Lago, lei però lo aveva lasciato lì ed era andata a vedere Enrico, circondato da altri due o tre che gli guardavano la faccia: niente sangue, solo una botta ma bastava a metterlo al centro delle pacche e dei “come stai?” invidiosi. La Barbara era arrivata allora, con la minigonna e i capelli biondi al vento, recitando la parte e strillando “Che ti sei fatto, amore?”, il che disse a Enrico che se quella sera trovava un buco dove andare a chiavare lei era disponibile, cellula del partito o no, in premio dell’eroismo. Lei la Barbara non la poteva vedere perché si comportava come una femmina e non come una comunista seria; e perchè anche, due anni prima, appena arrivata al liceo, si era innamorata di Enrico che però non se ne era nemmeno accorto dato che stava una classe avanti e era sempre preso a organizzare le assemblee e gli attivi.

Li guardò baciarsi, poi lui però si girò a lei per dire “li prendi tu i volantini? Dai, muoviamoci che è tardi, io piglio la vespa, ti porto se vuoi, tanto la Barbara va a piedi con Fabrizio.” Gli fece cenno di sì per i volantini e no per la vespa, aveva paura della vespa e stargli abbracciata con la scusa di stare sul sellino dietro non serviva a niente, era una storia seria con la Barbara, durava da quasi otto mesi infatti.

Il custode stava chiudendo i cancelli del liceo alle loro spalle. Alfredo le era ricomparso accanto e diventando rosso le aveva preso il lembo della sciarpa bianca lunghissima che strisciava per terra; “Troppo lunga, se te la acchiappano la prossima volta ti ci strozzano” le disse con una voce da imbarazzo; per due secondi si vide gli occhi chiari di lui a un centimetro dal naso, poi però si era riavvolta la sciarpa al collo e cominciava a piovere e i volantini avanzati erano per terra che si bagnavano. La Tere e gli altri si erano già avviati.

“La volevo rossa, ma mia madre non molla, ha detto che rossa è troppo vistosa” aveva detto tanto per dire qualcosa.

“E se io stasera telefonassi a tua madre e le dicessi che voglio sua figlia, lei che direbbe?” le aveva sussurrato Alfredo sempre più rosso e col ciuffo di capelli che gli andava negli occhi.

Lei lo aveva guardato perplessa, poi piegandosi a raccogliere i volantini avanzati e la cinghia per legarli, gli aveva risposto che sua madre avrebbe riappeso il telefono e che adesso erano già in ritardo, bisognava far la strada di corsa o il corteo partiva. Alfredo aveva tirato su il ciuffo e infilato le mani nelle tasche del cappotto, poi si era voltato e aveva detto “Ciao, io vado a casa”.

Il giorno dopo si era messo con la Stella, ma come aveva detto la cartomante non era durata, solo due mesi e la Stella aveva pianto un bel po’ perché era carina, coi capeli corti e un seno enorme e non ci era abituata a farsi lasciare dai ragazzi.

Lei lo aveva capito dopo che quella frase significava che a lui lei gli piaceva; è che mentre stai dando i volantini dopo uno scontro coi fascisti e sei in ritardo per il corteo se uno ti fa un discorso sul volere la figlia di tua madre vuol dire che ti sta prendendo in giro, che ti sta prendendo per una femminuccia deficiente che si è presa paura delle spinte tra ragazzi e non per una compagna seria, una che mette la rivoluzione davanti a tutto, anche al fatto che a ripensarci Alfredo ha una faccia chiara e un modo timido di fare che forse, se non stavi a dare i volantini e non eri in ritardo per il corteo, sarebbe stato bello andare per mano a fare una passeggiata nella pioggia fredda della mattina di febbraio.

Però poi era tardi per dirgli di provare a telefonare quando mamma non fosse stata in casa e del resto lui al collettivo non si era visto più.

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